Un viaggio indietro nella storia: l’8 maggio 1945

L’8 maggio 1945 i partigiani modenesi fecero la consegna delle armi con le quali combatterono la lotta di liberazione contro i nazi-fascisti.
Fu una giornata memorabile! La sera del 7 maggio 1945 a Paganine – piccolo borgo della periferia di Modena – c’era stato un gran movimento di persone. Ci si doveva preparare ad andare in città la mattina seguente, per consegnare le armi al Comando anglo-americano insediatosi presso il Presidio dell’Accademia Militare, dopo che Modena era stata liberata dalle forze partigiane. L’appuntamento con le diverse Brigate partigiane era in Largo Garibaldi. Giunti sul posto assistemmo ad uno spettacolo grandioso: bracciali tricolore, bandiere, fazzoletti rossi, tutto era all’insegna di una grande festa di colore. Ci si sentiva finalmente “liberi”. Il nemico era stato vinto! Ma il ricordo dei nostri Caduti, di chi non c’era più, dominava sommessamente i nostri cuori, immersi ancora in una profonda tristezza. In particolare, in me riemergeva il dolore per la perdita di Bruschi Ermanno, caduto sotto i miei occhi poche ore prima della liberazione di Modena. Quanti eroi avevamo conosciuto.

partigianeLe nostre compagne: Gabriella Degli Esposti, trucidata con il piccolo che portava in seno, Umbertina Smerieri uccisa a Concordia nelle ultime ore, Irma Marchiani fucilata a Pavullo, Gina Borellini mutilata per tutta la vita… ancora medaglie d’oro al ricordo del loro valore!
Da Largo Garibaldi tutte le Brigate partigiane iniziarono la sfilata per Viale Regina Elena, oggi Corso Martiri della Libertà. Si costeggiava il parco cittadino, ove un tempo sorgevano le antiche mura che circondavano Modena. Di parco, però, quel luogo aveva ben poche sembianze: i bombardamenti avevano falciato molte piante e molte altre erano state tagliate, di notte, da premurosi padri di famiglia per procurare un po’ di riscaldamento alle loro abitazioni.
Finalmente si cominciò a formare una catasta di armi lungo tutto il percorso, fino a Piazzale Risorgimento. I Comandanti in Capo dell’esercito anglo-americano seguivano con molta attenzione quello che circa 22 mila uomini e donne, giovani e giovanissimi stavano per portare a termine, con fermezza e serenità. Un gesto che avrebbe lasciato nella loro vita, nei loro animi, un ricordo indelebile, che non sarebbe mai più stato cancellato. Pur avendo ben presente, nei cuori, i volti dei compagni caduti, delle case e degli interi paesi incendiati e tutte le barbarie compiute contro gente inerme e indifesa, i partigiani deponevano le armi, quelle armi che erano servite per la difesa di una causa giusta, per la libertà del popolo, per la democrazia, per la pace tanto agognata.
Non nascondo che a quelle armi guardavamo con tenerezza. E sono sicura che gli alleati percepirono questo nostro sentimento, un moto interiore di gente umile che aveva combattuto con sacrificio e alla quale loro stessi erano grati. A quella gente fu reso l’onore delle armi dagli Alleati.
Ci guardavamo attorno per cercare uno sguardo di un compagno, per persuaderci e lasciare intendere che “la cosa” era ben fatta. Poi via, sciolti, mentre altre migliaia di persone compivano il medesimo gesto. Un interrogativo mi assillava, ma no, non avevo dubbi, anzi ero mossa da un’inflessibile determinazione: la guerra era veramente finita e non c’era più bisogno di essere timorosi. Ognuno di noi sarebbe tornato alla propria casa in pace. Ho visto qualcuno, parecchi per la verità, con gli occhi lucidi che cercavano di darsi un contegno. Ora basta, perbacco, eravamo degli ex combattenti che avevano contribuito a fare finire la guerra, eravamo la forza che aveva dato il meglio di sé per la condivisione di un futuro fatto di ideali irrinunciabili: la pace, la libertà, la democrazia.
Ora questi principi sono sanciti nella Carta Costituzionale della Repubblica Italiana, un testo valido per tutti. Sì perché durante la guerra partigiana avevamo avuto la solidarietà di tanta gente. A tutte quelle persone che ci avevano sostenuto, alla popolazione che si schierò al nostro fianco andava il nostro grande riconoscimento. Insieme ci siamo aiutati l’uno con l’altro sicuri che avremo insieme cambiato l’Italia. E per questo avremo continuato a vigilare perché il futuro del nostro Paese fosse realizzato nella piena volontà popolare.
L’8 maggio 1945 fu un giorno importante anche per la mia vita privata: in quel frangente mi fu, infatti, presentato il comandante della Brigata Gramsci, Andrea. Durante la guerra non avevo mai pensato di intrecciare la mia esistenza con un riferimento sentimentale.
In quel periodo la mia preoccupazione più grande era rivolta a mio fratello, come me partigiano. Ora la situazione era cambiata e potevo fare progetti –avevo 19 anni- ed Andrea era l’uomo che rappresentava il nostro futuro. La nostra vita è stata piena di affetto, insieme abbiamo rivolto lo sguardo alle intese politiche, siamo stati attenti ai cambiamenti, sempre in difesa dei diritti e della vita dei più deboli. Uniti abbiamo partecipato alla battaglia per la salvaguardia dei diritti garantiti dalla Costituzione e molte volte siamo tornati a casa abbattuti o coi segni delle sofferenze più profonde, come quando la polizia uccise 6 operai delle Fonderie Riunite di Modena che manifestavano per il lavoro dentro la fabbrica. A due anni appena dalla nascita dell’Italia democratica, il 9 gennaio 1950, la Costituzione era stata macchiata col sangue.
Quel fatto è un ricordo amaro, un momento tragico che il governo si potrò sulla coscienza.
Da quella tragica vicenda abbiamo compreso che il lavoro, la pace, la libertà non sono conquiste ottenute per sempre, ma equilibri delicati che vanno costantemente riaffermati, difesi giorno per giorno attraverso una lotta non meno impegnativa di quella da noi combattuta. Ibes Pioli – Rina