IRMA MARCHIANI “ANTY” | LETTERA AL FRATELLO
🔎 Vice comandante del Battaglione “Matteotti” della Divisione Garibaldi “Modena”. Nata a Firenze il 6 febbraio 1911, fucilata a Pavullo nel Frignano il 26 novembre 1944. Medaglia d’Oro al Valore Militare.

Carissimo Piero, mio adorato fratello, la decisione che oggi prendo, da tempo cullata, mi detta che io debba scriverti queste righe. Sono certa mi comprenderai, perché tu sai benissimo di che volontà io sono fatta. Seguo l’ideale che pur un giorno nostro nonno ha sentito. Non ti meraviglia questa mia decisione, vero? Sono certa sarebbe pure la tua.

Ora tutto è triste, gli avvenimenti in corso coprono anche le cose più belle di un velo triste. Nel mio cuore si è fatta l’idea (purtroppo non da troppi senti- ta) che tutti più o meno è doveroso dare il suo contributo. Questo richiamo è così forte che lo sento tanto profondamente, che dopo aver messo a posto tutte le mie cose parto contenta.

“Hai nello sguardo qualcosa che mi dice che saprai comandare”, mi ha det- to il comandante, “la tua mente dà il massimo affidamento; donne non mi sarei mai sognato di assumere, ma tu sì”. Eppure mi aveva veduto solo due volte.

Saprò fare il mio dovere, se Iddio mi lascerà il dono della vita sarò felice, se diversamente non piangere e non piangete per me.

PIERO CALAMANDREI| DISCORSO SULLA RESISTENZA, IVREA 4 APRILE 1954
🔎 Membro della Consulta nazionale e dell’Assemblea Costituente

Ricordate le parole estreme, come un sospiro, scalfite con uno spillo da Guglielmo Jervis sulla copertina di quella Bibbia che fu ritrovata sul luo- go della fucilazione: «Non piangetemi, non chiamatemi povero. Muoio per aver servito un’idea».

Per aver servito un’idea. Ma oggi anche lui domanda a noi vivi: «Che ne avete fatto di questa idea, di questa idea per la quale noi siamo morti? Che ne avete fatto voi vivi, che ne farete, come avete mantenuto in questi anni, come manterrete la fedeltà a questa consegna che i morti vi hanno trasmesso per l’avvenire?».

Ma mai come questa volta è vero che far la celebrazione del passato vuol dire guardare dentro di noi e fare il nostro esame di coscienza. Eppure, in queste celebrazioni, la rievocazione del passato è quello che conta meno; quello che conta veramente è di confermare l’impegno per l’avvenire.

In queste commemorazioni ci illudiamo di esser noi, qui vivi, che celebriamo i morti e non ci accorgiamo che sono loro, i morti, che ci convocano qui, come dinanzi a un tribunale invisibile, a render conto di quello che in questi anni abbiamo fatto per non essere indegni di loro, noi vivi.

In tutte le celebrazioni torna, ripetuta in cento variazioni oratorie, una verità elementare che nelle lettere dei condannati a morte della Resistenza riaffio- ra come una naturale e semplice certezza: che i morti non hanno considera- to la loro fine come una conclusione, come un punto d’arrivo, ma piuttosto come un punto di partenza, come una premessa che doveva segnare ai superstiti il cammino verso il futuro.

Questa non è una frase retorica, non è un artificio pietoso destinato a con- solare le madri per averli perduti. È che veramente noi sentiamo, quasi con la immediatezza di una percezione fisica, che quei morti sono entrati a far parte della nostra vita, come se morendo avessero arricchito il nostro spi- rito di una presenza silenziosa e vigile, con la quale ad ogni istante, nel segreto della nostra coscienza, dobbiamo tornare a fare i conti.

Quando pensiamo a loro per giudicarli, per esaltarli, ci accorgiamo che sono loro che giudicano noi e che è la nostra vita che può dare un significato e una ragione rasserenatrice e consolante alla loro morte e che dipende da noi farli vivere o farli morire per sempre.